QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA

cieco

Il centro  della liturgia della Parola di questa quarta domenica di quaresima è rappresentato dal tema della luce e delle tenebre. E precisamente del contrasto tra queste due realtà, già sottolineato da San Giovanni nel IV° Vangelo, quando dice:” La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta”. Un contrasto però che non riguarda soltanto l’inizio della vita cristiana, passaggio dal buio alla luce della fede mediante il battesimo,  ma coinvolge ogni attimo della nostra esistenza, sospesa spesso a comportamenti e pensieri, giocati tra luce e tenebre, senza alcuna serietà di autentica ed evangelica testimonianza. Per noi cristiani non basta la consapevolezza di essere non più “tenebra”, una volta ricevuto il battesimo, è necessario che ci comportiamo anche come figli della luce, impegnati a fugare le opere delle tenebre. Non è sufficiente essere semplici testimoni della luce, ma dobbiamo diventare “voce profetica” all’interno delle nostre comunità, denunciando ogni sorta di ingiustizia e di violenza, condannando ogni maschera di legalità, respingendo ogni accattivante schema politico, che sia portatore di tenebre sociali. Non possiamo sottrarci a questo impegno, se vogliamo restare fedeli al nostro Battesimo, che è essenzialmente una chiamata alla luce; una  esperienza di risurrezione, vero passaggio dalla morte alla vita, che dobbiamo testimoniare lungo tutta la nostra storia, come Gesù, il quale una volta “risuscitato dai morti, non muore più”.

Ma cerchiamo di entrare nell’episodio della guarigione del cieco nato, che oltre a figurare un anticipo del passaggio di Cristo dalla sua morte alla luce della risurrezione, è anche la storia di una conversione, di un’illuminazione spirituale. Ebbene, fermo restando la realtà del miracolo come passaggio dalla cecità fisica alla vista, vediamo in questo uomo infermo un vero cammino di fede, che è esemplare per il nostro itinerario di credenti. Al di là dell’impasto di fango e saliva che Gesù applica sugli occhi spenti del cieco, ciò che colpisce e fa esaltante la sua figura, è l’obbedienza alla parola di Gesù:” Va a lavarti nella piscina di Siloe”…quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva”. Ed è proprio la sua fede che rende prodigiosa l’acqua. La fede, quella vera, è resa, abbandono; è un affidarsi incondizionatamente alla parola di Dio. Il cieco accetta l’incredibile. Superando ogni logica umana, si lascia conquistare da Cristo: ci vede perché ha creduto. Conquistato, vince tutte le difficoltà, persino le ostilità dei suoi genitori, che, di fronte alle minacce dei giudei, declinano ogni responsabilità, imputando al figlio cieco quanto accaduto: ”Chiedetelo a lui – rispondono – ha l’età, parlerà lui di se stesso”. E qui tra il cieco e le autorità giudaiche inizia un dialogo quasi drammatico, i cui contorni non riguardano tanto il fatto in sé del miracolo, quanto la stessa identità di Gesù.  Ai giudei non interessa l’accettazione o meno di quanto avvenuto. In gioco c’è qualcosa di più importante: smascherare Cristo come falso profeta. In altre parole, lo scontro non è sull’autenticità del miracolo, ma intorno alla persona di Cristo. E mentre i Giudei si irrigidiscono nella loro incredulità, rifiutandosi di credere nella messianicità divina di Gesù, il cieco senza seguire i ragionamenti di questi pretesi sapienti, alla domanda: ”tu che dici di Lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?”, risponde: ”è un profeta”. Una risposta che gli costa l’espulsione dalla sinagoga. A questo punto il cammino di fede del cieco approda all’ultimo traguardo: in quell’uomo che si chiama Gesù, egli vede il Signore della gloria. Una percezione profonda che aggrava ancora di più la cecità dei giudei, i quali non riuscendo a vedere la presenza di Dio in Cristo, lo respingono addirittura come un “peccatore”.

Purtroppo, essi non vedono, perché non vogliono; tanto sono chiusi nelle gabbie dei loro privilegi che volutamente rifiutano ogni segno di divinità nella persona e nell’operato di Gesù. Pertanto, la loro è una cecità colpevole. Tanto è vero che, a conclusione dell’episodio, troviamo una severa sentenza di giudizio: ”Io sono venuto in questo mondo – dice Gesù – per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi”. Sembra una conclusione paradossale, ma è così. Perché davanti alla luce o apriamo gli occhi per vedere ed immergerci in essa, oppure li chiudiamo e restiamo nelle tenebre.  Nella discussione tra i farisei ed il cieco guarito, notiamo che Gesù si pone come luce per i non vedenti; però può provocare anche accecamento per i presunti vedenti. Chi riconosce la sua cecità ed accetta di farsi illuminare da Cristo, diventa “figlio della luce”; e le sue saranno opere di bontà, di giustizia e verità. Viceversa, chi si illude di vedere, rischia di diventare cieco; e, le sue saranno opere di egoismo, ingiustizia e falsità. E questo è un rischio che incombe un po’ su tutti noi cristiani. Spesso crediamo di vedere, ma il nostro è un vedere senza cuore, ci illudiamo di essere i depositari di Cristo, però siamo incapaci di testimoniarlo nelle cose che contano; pensiamo di essere a posto con Dio e con gli uomini; invece, nella realtà siamo lontano da Dio e dagli stessi uomini. Le squame dell’ipocrisia ancora non cadono dai nostri occhi; ancora non prendiamo atto dei nostri limiti e delle nostre povertà. In questo tempo di quaresima siamo invitati ad uscire dal sonno della cecità, per aprire gli occhi alla luce del Vangelo. Siamo chiamati ad essere trasparenti, luminosi, perché – come leggiamo nella I^ lettura, tratta dal I° libro di Samuele – il Signore non guarda l’apparenza, ma il cuore. Più il cuore è nella luce, più vediamo e leggiamo le cose, gli uomini e gli avvenimenti con gli occhi di Dio, e, quindi, con gli occhi della fede.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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