XXII DOMENICA T. O.

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Nelle letture bibliche di questa domenica troviamo una continuità diretta con quelle di domenica scorsa. Lì abbiamo celebrato la messianicità trascendente di Cristo, figlio del Dio vivente; qui scopriamo, attraverso le stesse parole di Gesù, che tipo di Messia Egli è. Non il Messia del trionfalismo temporale, tanto atteso, destinato alla liberazione di Israele, ma il Messia della Croce. Lì abbiamo meditato la grande professione di fede di Pietro, ispirato dall’Alto, nella divinità di Cristo e la sua costituzione quale “roccia” di fondamento per la Chiesa; qui vediamo la brusca reazione di Gesù che ravvisa “una pietra di scandalo” in Pietro, che vorrebbe impedirgli di percorrere la via della passione. Ebbene, il brano si compone di due parti, le quali, anche se ben distinte, sono collegate tra loro da un unico filo conduttore: la Croce, necessaria per Cristo ed i discepoli ad entrare nella gloria del Padre.
Nella prima parte, Gesù mostra le linee della sua messianicità, spiega, cioè, il contenuto vero del suo essere Messia. Nulla compie al di fuori della volontà del Padre, al quale è sempre obbediente, anche se la via da percorrere è quella della Croce. Ed è proprio questa prefigurazione tragica che Gesù fa della sua vita, che Pietro respinge, cercando di ostacolargli la sua andata a Gerusalemme, dove si sarebbe consumato il martirio. Purtroppo, Pietro, pur non rinnegando la propria fede in Cristo, ancora non pensa secondo Dio, ma secondo i propri schemi umani, sospesi alla mentalità del tempo, in attesa di un messianismo politico, senza alcun riferimento alla sofferenza, alla sconfitta. Ed è questo modo di pensare, incapace di cogliere il senso delle cose di Dio, che Gesù stigmatizza aspramente, giungendo a qualificare Pietro come strumento di Satana: ”Lungi da me, Satana! – gli dice – tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”. Pertanto, nella vita di Gesù la Croce non è un incidente di percorso, non previsto ed improvviso, ma un disegno prestabilito del Padre, verso il quale Egli va incontro con consapevolezza, quale Servo sofferente e Messia della Croce, obbediente “fino alla morte ed alla morte in Croce”.
Nella seconda parte del passo evangelico, constatiamo che la Croce nella volontà di Dio non è prevista solo per Gesù, ma anche per coloro che si pongono alla Sua sequela. Gesù chiaramente rivela la necessità per ogni discepolo di sentirsi coinvolto nella sua sofferenza. Anzi, non è vero cristiano chi non continua in sé la passione di Cristo. A tale proposito, Gesù detta le condizioni per essere cristiani: rinnegare se stessi e prendere la propria croce. E come Lui nella passione e morte si è annientato, svuotato; si è donato totalmente agli altri per ritrovarsi nella gloria della risurrezione, così il cristiano è invitato a fare altrettanto: deve perdersi per vivere; deve rinunciare all’avere per essere; deve amare Cristo al di sopra di tutto, se vuole vivere sempre e per sempre in Dio. Il cristiano non ha davanti a sé una via diversa da quella di Cristo. Solo assimilato liberamente alla Sua passione, può un giorno partecipare della gioia della risurrezione. Ebbene, le parole che troviamo in questa seconda parte del brano evangelico sono veramente paradossali. Ci mettono in crisi, richiamando le nostre responsabilità di fronte agli orizzonti di eternità. Smascherano le false sicurezze riposte nella cultura del benessere e del potere, ponendoci davanti al giudizio finale sulla vita, quando il Figlio dell’uomo renderà a ciascuno secondo le sue azioni: ”Quale vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima?”. Domande brucianti che penetrano nella profondità dell’anima, aprendo lo scenario della fugacità della vita e della fragilità delle cose, con il rischio incalcolabile di scelte sbagliate che possono gettarci nella perdizione. Certamente la via percorsa da Cristo e da Lui a noi indicata non è facile. La porta per la quale siamo chiamati a passare non è larga, ma stretta. E’ un intarsio di sofferenze e di rinunce, che sperimentiamo quotidianamente, fino a provare amarezza per un Dio che prima seduce e poi sembra abbandonarci a noi stessi. Emblematica è la confessione del profeta Geremia nella prima lettura, dove l’amore di Dio viene presentato come un atto di seduzione:” Mi hai sedotto, o Signore – dice il Profeta – ed io mi sono lasciato sedurre”. La consapevolezza di essere amato e di aver corrisposto al suo amore esigente, non lo libera però dal tormento che le continue rinunce e sofferenze gli causano. Anzi, lo affliggono sino al desiderio di ribellarsi e di non essere più un suo portavoce. Ma non lo fa, perché avverte che la parola di Dio, come “fuoco ardente” lo penetra, lo avvinghia nel cuore e nella mente, tanto da dire: ”mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”. Quella di Geremia è l’esperienza di una vera crocifissione, che prefigura la sofferenza di Cristo. E come questa consiste nella coerenza di spendersi e perdersi per Dio, sicuro di trovarsi nella gioia del Suo amore. In un mondo dove l’unica misura di valutazione di persone e cose è lo spessore del piacere e della gioia a basso costo, è difficile recepire il messaggio della croce e della rinuncia. Però, se ancora resiste un pensiero di eternità in noi, se ancora Cristo è Qualcuno da amare e da seguire, non possiamo disimpegnarci dalle linee di comportamento da Lui tracciate. Pertanto, svuotarci per riempirci di amore verso Dio ed il prossimo, vivendo lo spirito delle Beatitudini, è e resta la condizione fondamentale per condividere la persona di Cristo nella nostra vita.

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