II^ Domenica di Pasqua

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La liturgia di questa seconda domenica di Pasqua ci invita a rinnovare la nostra professione di fede in Cristo risorto. Con oggi inizia un arco di sette settimane pasquali, durante le quali Gesù, sempre per sua iniziativa, appare e scompare inaspettatamente, anche a porte chiuse. Le apparizioni, in tutto una decina, sono la sorgente della nostra fede, della nostra speranza. Proclamano, in maniera concreta ed inequivocabile, che sulla croce non ha trionfato la morte, ma la vita; non le tenebre, ma la luce sfolgorante del Risorto.

La pagina del Vangelo odierno racconta due apparizioni di Gesù Risorto ai discepoli, di cui una provocata dall’incredulità di Tommaso. Entrambe avvengono nel Cenacolo, dove i discepoli, avvolti dal buio della notte e del cuore, si trovano riuniti insieme “la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato”, durante il quale gli Ebrei avevano celebrato la loro Pasqua, la pasqua dell’Antica Alleanza. Con il Cristo Risorto, che ora appare in mezzo al gruppo, comincia “in quello stesso giorno – il primo dopo il sabato – la Pasqua della Nuova Alleanza, quella definitiva per la nostra salvezza. Perciò, il giorno della Risurrezione è divenuto subito il “giorno del Signore”, la domenica cristiana, tutta incentrata sull’Eucaristia, memoriale della Pasqua di Gesù. Ebbene, in tutte le apparizioni Gesù non è riconosciuto subito: il riconoscimento si verifica in seguito ad una parola, ad un segno, a qualche indizio della sua identità. Questo dimostra che Gesù, dopo la risurrezione, ha sì un corpo reale, per cui non è un fantasma, ma le modalità del suo nuovo modo di esistere sono diverse. Perciò, può entrare nel cenacolo anche a “porte chiuse”. In altre parole, quello di Gesù è un corpo glorioso, spirituale, capace di attraversare anche le pareti. Ma l’Evangelista Giovanni non cerca soltanto di evidenziare che il Cristo Risorto non è diverso dal Gesù crocifisso: ”mostrò loro le mani ed il costato”; ma vuole essenzialmente dimostrare che il Risorto è veramente il “Signore della vita”. Cioè, quel Gesù che sembrava definitivamente sconfitto dalla morte, in realtà è il Kyrios, il Signore della morte e della vita, dal quale scaturiscono la pace e lo Spirito Santo, sorgente e principio della riconciliazione. Anzi, in questa prima apparizione, l’incontro con il Risorto è contraddistinto proprio dall’offerta di questo dono straordinario: la remissione dei peccati, con cui Gesù, perdonando, dimostra la Sua divinità.

Nella seconda apparizione, che leggiamo nella seconda parte del brano evangelico, rileviamo la risposta di amore di Gesù alla sfida di Tommaso, il quale, assente nella precedente apparizione, alla notizia degli amici:” abbiamo visto il Signore”, non riuscendo a credere, esige, come previa condizione, una prova, una verifica visibile: ”Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodo e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. Quella di Tommaso è la situazione di ogni uomo. Anzi, in ognuno di noi c’è  un Tommaso, spesso in difficoltà a credere, pronto a confondere la fede con l’esigenza di un dato scientifico. Tommaso è il simbolo di tuti noi che, pur ponendoci domande su Dio e sul mistero di Cristo, non abbiamo il coraggio di vivere il rischio della fede. Abbiamo paura di “scommettere” su ciò che “non vediamo”. Ecco perché Gesù a Tommaso e a noi, che cerchiamo ragioni, prove e certezze assolute per credere ed accettare Dio nella nostra vita, rivolge un amorevole rimprovero: ”Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno!”. Allora non la pretesa di segni o di prove concrete dobbiamo domandare a Dio per credere, ma porci nelle Sue mani, abbracciando la croce della sequela, in cammino sì nella notte dei dubbi, ma pellegrini attenti verso la luce, verso la voce di Dio che dice a ciascuno di noi, singolarmente: ”sei e ti stringerò tra le mie braccia”. Ebbene, solo aderendo a Dio, manifestatosi visibilmente e storicamente in Cristo, morto e risorto, il credere diventa visione. Una visione che ci rende “beati” già qui, in questo frattempo che viviamo tra il già ed il non ancora, ove, pur “non avendo visto”, ci affidiamo a Cristo con incondizionata adesione, confessando, come Tommaso, “mio Signore e mio Dio”. E questa è una grande esperienza di incontro con Cristo risorto, che il primo nucleo della Chiesa dell’inizio viveva come un prodigio sempre attuale, ritrovandosi insieme nel “giorno del Signore”. A tale proposito, S. Luca nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, descrive la novità di vita dei primi cristiani, i quali “erano assidui – dice – nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere”. Vivevano davvero una vita da “risorti”, cittadini di un nuovo mondo, vissuto in perfetta comunione e condivisione. E tutti erano contagiati dall’esperienza della risurrezione, non per la concreta visione di Cristo, ma per la testimonianza di vita di coloro che si dicevano discepoli del Risorto. Una mediazione testimoniale che purtroppo oggi manca, essendo un po’ tutti più sedotti dal ruolo di maestri che di testimoni;  più dalla volontà di essere profeti di parole che autentiche voci profetiche, capaci di garantire con la vita di uomini nuovi e diversi, che Cristo è “davvero risuscitato dai morti”. Pertanto, solo quando la nostra fede diventerà contagiosa e saprà comunicarsi, noi saremo motivo di sorpresa e di ammirazione negli altri, i quali, domandandosi il “perché” di questa diversità di comportamento, potranno restare anch’essi presi dall’esperienza della risurrezione, coinvolgendosi nella scoperta di Cristo, quale “Signore e Dio”, fonte di infinita misericordia.

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