QUARTA DOMENICA T.O. ANNO C

quarta Lo sfondo sotteso al brano evangelico di Luca è quello della sinagoga di Nazaret, ove Gesù attribuisce alla sua persona il passo del profeta Isaia, quello cioè, di “annunziare ai poveri un lieto messaggio, proclamare ai prigionieri la liberazione ed ai ciechi la vista, rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore”.  In altre parole, Gesù, rivendica per sé una missione profetica, una missione di salvezza e di liberazione. Egli proclama di essere l’inviato di Dio, il salvatore dell’umanità. Affermazioni provocatorie, pronunciate davanti ad un uditorio, che, benché stupito “delle parole di grazia che uscivano dalla bocca di Gesù”, è fortemente prevenuto nei suoi riguardi:”Non è Costui il Figlio di Giuseppe?”. Un interrogativo carico di ostilità, che nasce nella mente dei presenti, i quali, chiusi ad ogni tentativo di scalfire il mistero,  di andare, cioè, al di là di ciò che vedono, non riescono a conciliare le umili origini di Gesù con la sua dichiarata pretesa di essere colui nel quale “oggi si è adempiuta la Scrittura”.

Pertanto, non solo non sanno cogliere il mistero, che nell’agire di Gesù certamente si rivela; non solo ostentano indisponibilità a credere, ma ancora una volta cercano nella straordinarietà un dio a proprio piacimento:”quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, – dicono – nella tua patria!”.

C’è in essi una sorta di desiderio dello straordinario, del miracolo visto come manifestazione di stupore e non come motivo per credere e convertirsi. A tale concezione magica e taumaturgica Gesù si oppone senza mezzi termini: per Lui i miracoli non sono strumenti di successo o gesti propagandistici, ma espressione di amore, che compie liberamente dove vuole e per chi vuole. Del resto, non  c’è da meravigliarsi, soprattutto se si consideri che Dio, a causa della incredulità dei suoi, sceglie di compiere i prodigi, già nell’Antico Testamento, al di fuori della stessa Palestina. Così il profeta Elia si preoccupò di una vedova della regione fenicia, durante una terribile carestia, che aveva colpito anche la terra di Israele; ed il profeta Eliseo guarì dalla lebbra il generale Siro Naaman, quando in Israele molti ne erano afflitti. Per i cittadini di Nazaret, quello di Gesù è un linguaggio pesante. Per cui frustati ed incapaci di aprirsi alla fede ed alle sorprese divine; vogliosi di miracoli per loro uso e prestigio, in contrasto con i disegni di amore universale di Dio, gli diventano ostili, fino al tentativo di ucciderlo:”pieni di sdegno, si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte……, per gettarlo giù dal precipizio”. Purtroppo, quando la religione la si interpreta come un possesso personale e Dio come una realtà disponibile ai propri interessi, non c’è spazio per aprirsi alle esigenze sempre nuove ed imprevedibili di Dio. La vicenda di Nazaret, che riflette quella del profeta Geremia, narrata nella prima lettura, è un atto di accusa contro quelle forme di religiosità, a cui spesso ci attacchiamo, ma che appena vanno in crisi, rivelano il vero volto, quello della incredulità e dell’egoismo. Ma la parola di Dio non si spegne: dilata ed allarga i confini, per cui nuove vedove e nuovi lebbrosi alzano il capo ed aspettano lungo le strade il Signore che passa. A questo punto è opportuno domandarsi: noi ci lasciamo provocare dalle parole di Gesù, facendoci trasformare, o gli poniamo ipocrite condizioni come i cittadini di Nazaret? Parliamo contando sulla forza della verità e sull’aiuto che viene da Dio oppure restiamo prigionieri della nostra apparente religiosità?”.

Oggi più che mai, dobbiamo avere la forza profetica dello Spirito, se vogliamo riaffermare la modernità e la basilarità dei valori cristiani. Fermo restando che la testimonianza più forte è quella dell’amore, come ci ricorda San Paolo nella seconda lettura, dove, con parole sublimi, dice:”Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna”. E poi aggiunge:”Tre cose rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte, più grande è la carità”.

 

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