IV Domenica di Pasqua

gesù buono

La liturgia della Parola di questa domenica è dominata dalla figura del buon Pastore. E’ un’immagine questa molto cara agli Ebrei, le cui origini nomadi dimostrano chiaramente la familiarità che avevano con il proprio gregge. Un rapporto di familiarità che trasportano anche sul piano religioso, fino a configurare l’amore di Dio come quello del pastore verso le pecore. Anzi, Dio stesso viene indicato dai profeti come il Pastore di Israele, che fa uscire il suo popolo dall’Egitto, come da un recinto, conducendolo verso i nuovi pascoli della terra promessa. Senza spaziare con ulteriori riferimenti biblici, basti pensare al salmo 22, recitato oggi come salmo responsoriale, nel quale gustiamo, in maniera feconda, questa bellissima immagine, che poggia sulla garanzia di sicurezza e di felicità che il Signore, come il Pastore per il suo gregge, offre con la sua Presenza in mezzo a noi. Una sicurezza che troviamo  racchiusa nel ritornello del salmo: ”Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”. Anche nella seconda lettura, ripresa dalla prima lettera di Pietro, ritorna l’immagine del pastore. Un pastore, però, che ci conduce verso i pascoli dell’Eternità con il suo sacrificio, facendosi centro di attrazione per tutti,  chiamati a seguire le orme da Lui tracciate: ”Cristo patì per voi – dice San Pietro – lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme……Eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime”.

Ebbene, a questo punto, esaminiamo il brano evangelico di Giovanni, nel quale leggiamo il discorso che Gesù fa di se stesso come buon Pastore a Gerusalemme; e, precisamente, dopo il miracolo della guarigione del cieco nato. Il linguaggio adoperato è preso dagli usi pastorali del tempo e manifesta un valore altamente teologico di autorivelazione: Gesù, cioè, si presenta come il pastore atteso dalle genti, che ama fino al sacrificio supremo; e, nello stesso tempo, si definisce come la porta unica e necessaria per accedere alla salvezza. Questa rivelazione di Sé la constatiamo sin dalle prime batture della parabola, dove si staglia un confronto drammatico fra il pastore vero ed il ladro e brigante, nonché fra il loro modo diverso di entrare nel recinto delle pecore. Un confronto, questo, che prepara bene l’autopresentazione di Gesù quale “porta delle pecore” e “buon pastore”, e certamente configura un taglio polemico contro tutti coloro che penetrano nell’ovile non per la porta, ma attraverso altre parti con furbi espedienti. A differenza di questi ultimi, falsi pastori, che creano solo disagi e scompiglio, morte e distruzione, Gesù è il vero Pastore, la cui azione nei confronti delle pecore è segno di manifestazione di familiarità ed intimità. Infatti, Egli “entra per la porta”; le chiama individualmente, una per una; e non genericamente, ma ciascuna con il proprio nome. Esse ascoltano, conoscono la sua voce e lo seguono, sicure di approdare ai fertili pascoli. Pertanto, Gesù applica alla sua persona il ruolo di guida e di salvatore che l’Antico Testamento attribuisce solo a Dio. Usa la formula biblica “Io sono”, che evoca le parole di Dio a Mosè dal roveto ardente: ”Io sono Colui che sono”. Parole che danno una misteriosa definizione di Dio. E Gesù, dicendo: ”Io sono la porta delle pecore”, “Io sono il buon Pastore”, dimostra di aver una chiara coscienza di essere e di operare come Dio. Anzi, come Dio, si manifesta pastore del suo popolo. Purtroppo, questo discorso, con la triplice immagine della porta, del pastore e delle pecore, non viene compreso dagli ascoltatori. Per cui Gesù, senza sminuire il contenuto della rivelazione, chiarisce la pastoralità di queste immagini, sottolineando la sua prerogativa messianica: ”In verità, in verità vi dico: “Io sono la porta delle pecore: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà ed uscirà e troverà pascolo”. E se la porta è l’unico ingresso, attraverso cui entriamo ed usciamo, Gesù non solo ne è il custode, ma è la porta stessa. Ci troviamo al cospetto di un ricco simbolismo pastorale, che, calato nelle nostre attuali categorie mentali, dischiude orizzonti di grande apertura   del mistero di Cristo, il quale, designandosi unico depositario della salvezza si rivela unico Messia ed unico salvatore dell’umanità. Una finalità salvifica che Gesù realizza passando attraverso la “porta stretta” della croce, sulla quale  è stato nello stesso tempo Pastore dell’umanità errante ed agnello sacrificale, immolato per la nostra redenzione. Una missione questa che affida alla Chiesa, suo gregge, la quale non deve mai dimenticare la sua funzione di “porta” attraverso cui passano le pecore ed i pastori. Né deve trascurare il servizio di amore e di donazione verso tutti, soprattutto gli ultimi. Tutto ciò assume un significato particolare in questa domenica, dedicata da Paolo VI° (1963) alla “Giornata mondiale delle vocazioni”. Durante questa giornata ognuno di noi, prendendo coscienza che una Chiesa senza preti è una Chiesa senza vita, è invitato a pregare il Signore, perché la renda viva nella costanza gioiosa dei consacrati, che già sono al suo servizio. E’ invitato a pregare il Signore perché mandi nuovi presbiteri, che sappiano vivere e testimoniare con l’ardore della carità la loro vocazione. Soprattutto, è invitato a pregare il Signore, perché illumini i nostri vescovi nel discernimento delle scelte, onde evitare l’inserimento nelle loro Chiese particolari, di falsi vocazioni, la cui presenza è solo fonte di malessere morale e spirituale.  In un mondo già segnato dall’odio, dalla violenza e dall’oppressione, dove però ancora non è spenta la fame di giustizia, di verità e grazia c’è bisogno di autentiche testimonianze sacerdotali, sincere e limpide, le cui manifestazioni di comportamento si intrecciano in una normale linearità di condotta, nella quale ognuno possa leggere la presenza silenziosa, ma reale ed efficace di Cristo.

 

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