Categoria: Fede

III Domenica di Pasqua

Emmaus

Continuano le apparizioni di Gesù. Esse sono essenzialmente vicende di fede, incontri ricchi  di mistero, ma reali tra il Risorto ed i suoi discepoli. Nell’odierno brano evangelico, il cui racconto è una esclusività di Luca, leggiamo l’itinerario di fede dei due discepoli di Emmaus, i quali passano progressivamente dalla non conoscenza di Gesù alla comprensione del suo mistero di morte e risurrezione; dalla delusione, racchiusa in quel malinconico “sperabamus”, alla visione della fede, e, quindi, alla confessione gioiosa: ”il Signore è veramente risorto”. Un cammino profondo, scandito dall’ascolto della parola di Dio e dal gesto di Gesù dello spezzare il pane. Ma cerchiamo di approfondire la trama di questo incontro, vissuto dai due discepoli sulla strada da Gerusalemme ad Emmaus, con Gesù, il quale, senza farsi conoscere, si fa compagno di viaggio. Con il volto triste, camminano ormai vinti dalla protrazione. Essi hanno già sepolto le speranze messianiche nella tomba del Crocifisso. Discutono tra loro per colmare il vuoto causato da quanto drammaticamente accaduto, ma la sconfitta resta pesante. Allo sconosciuto viandante che finge di ignorare il contenuto della discussione, gli offrono una dettagliata storia, confidando persino l’amarezza per il crollo delle loro speranze: ”noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute”. Parole sofferte, pronunciate come memoria di una fine senza ritorno. Infatti, ormai non c’è più nulla da fare: le speranze di una liberazione di Israele sono fallite per sempre. Tutto è finito sulla croce. A questo punto si aprono orizzonti di nuova luce: l’estraneo viandante si inserisce nella discussione. E, attraverso la spiegazione dei testi della Scrittura, a cominciare “da Mosè e da tutti i profeti”, manifesta la necessità della sofferenza e della morte in croce di Cristo, per “entrare nella gloria” del Padre. Pertanto, ciò che ad essi appariva come il fallimento di un progetto, in realtà è l’inizio della gloria: ”Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. Così, sulla via per Emmaus, Gesù, in prima persona, celebra la liturgia della Parola, introducendo i due discepoli nella comprensione del suo mistero, fino a renderli partecipi della Sua Pasqua di salvezza. Ebbene, l’insegnamento della Scrittura, con il quale Gesù mostra la stretta colleganza tra le profezie messianiche dell’Antico Testamento e il loro compimento nel Nuovo, è il primo segno che offre ai due discepoli, per farsi riconoscere. Il secondo è un segno eucaristico. Certamente la cena, a cui Gesù è invitato, riveste i requisiti della normalità quotidiana. Però, non si può prescindere dalla sua prospettiva eucaristica, alla quale il testo allude, quando riporta i gesti compiuti dall’insolito pellegrino: ”quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro”. C’è in questa espressione un chiaro rimando all’istituzione dell’Eucaristia. Tanto è vero che proprio dopo la pronuncia di queste parole, essi lo riconoscono: ”ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”, dove “riconoscere” in senso biblico, è il verbo della fede. Ma la scena non si chiude qui, con il riconoscimento del Risorto. Essi, con il cuore traboccante di gioia, ritornano subito a Gerusalemme, per testimoniare agli undici quanto accaduto e come avevano riconosciuto Gesù nello spezzare il pane. Su questa traiettoria di gioia e di testimonianza si muovono le altre due letture bibliche. Nella prima, tratta dagli Atti degli Apostoli, le parole dell’apostolo Pietro racchiudono la ricchezza della nostra fede, fondata su Cristo, messo a morte nella carne e risorto nella gloria per la nostra salvezza. Un “disegno questo già prestabilito” da Dio; per cui, anche se apparso agli occhi degli uomini come un fallimento, uno smacco; in realtà esso rivela l’esaltazione dell’onnipotenza e dell’amore del Padre verso l’umanità. Anche la seconda lettura, tratta dalla prima lettera di San Pietro, parla di questo misterioso disegno di Dio riguardo a Cristo: ”Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma si è manifestato negli ultimi tempi”. E noi siamo i destinatari di questo disegno di amore che la Scrittura ci svela, facendoci sentire il bisogno di conoscerlo e meditarlo. Ebbene, il racconto dell’incontro pasquale di Cristo risorto con i due discepoli di Emmaus, si configura come un episodio molto intenso, ritmato simbolicamente dalla complementarietà di due aspetti essenziali: ascolto della parola di Dio e lo spezzamento del pane. Gesù risorto, facendosi pellegrino con i pellegrini, dopo aver donato la parola di Dio, porta l’Eucaristia dal Cenacolo di Gerusalemme sulla strada della vita di ognuno di noi. Si fa presente nella nostra storia personale e comunitaria. Passa continuamente, bussando alle porte dei nostri cuori. Noi non siamo mai soli. Cammina a fianco a noi, con una presenza misteriosa, ma reale. E noi Lo possiamo riconoscere e testimoniare come il Dio della vita, a condizione però che la sua parola e il pane spezzato dell’Eucaristia riscaldino i nostri cuori e rendono gli occhi dello spirito capaci di scoprirLo vivo nel lamento del povero, nel grido di chi soffre, nello sguardo degli ultimi.

 

II^ Domenica di Pasqua

tom

La liturgia di questa seconda domenica di Pasqua ci invita a rinnovare la nostra professione di fede in Cristo risorto. Con oggi inizia un arco di sette settimane pasquali, durante le quali Gesù, sempre per sua iniziativa, appare e scompare inaspettatamente, anche a porte chiuse. Le apparizioni, in tutto una decina, sono la sorgente della nostra fede, della nostra speranza. Proclamano, in maniera concreta ed inequivocabile, che sulla croce non ha trionfato la morte, ma la vita; non le tenebre, ma la luce sfolgorante del Risorto.

La pagina del Vangelo odierno racconta due apparizioni di Gesù Risorto ai discepoli, di cui una provocata dall’incredulità di Tommaso. Entrambe avvengono nel Cenacolo, dove i discepoli, avvolti dal buio della notte e del cuore, si trovano riuniti insieme “la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato”, durante il quale gli Ebrei avevano celebrato la loro Pasqua, la pasqua dell’Antica Alleanza. Con il Cristo Risorto, che ora appare in mezzo al gruppo, comincia “in quello stesso giorno – il primo dopo il sabato – la Pasqua della Nuova Alleanza, quella definitiva per la nostra salvezza. Perciò, il giorno della Risurrezione è divenuto subito il “giorno del Signore”, la domenica cristiana, tutta incentrata sull’Eucaristia, memoriale della Pasqua di Gesù. Ebbene, in tutte le apparizioni Gesù non è riconosciuto subito: il riconoscimento si verifica in seguito ad una parola, ad un segno, a qualche indizio della sua identità. Questo dimostra che Gesù, dopo la risurrezione, ha sì un corpo reale, per cui non è un fantasma, ma le modalità del suo nuovo modo di esistere sono diverse. Perciò, può entrare nel cenacolo anche a “porte chiuse”. In altre parole, quello di Gesù è un corpo glorioso, spirituale, capace di attraversare anche le pareti. Ma l’Evangelista Giovanni non cerca soltanto di evidenziare che il Cristo Risorto non è diverso dal Gesù crocifisso: ”mostrò loro le mani ed il costato”; ma vuole essenzialmente dimostrare che il Risorto è veramente il “Signore della vita”. Cioè, quel Gesù che sembrava definitivamente sconfitto dalla morte, in realtà è il Kyrios, il Signore della morte e della vita, dal quale scaturiscono la pace e lo Spirito Santo, sorgente e principio della riconciliazione. Anzi, in questa prima apparizione, l’incontro con il Risorto è contraddistinto proprio dall’offerta di questo dono straordinario: la remissione dei peccati, con cui Gesù, perdonando, dimostra la Sua divinità.

Nella seconda apparizione, che leggiamo nella seconda parte del brano evangelico, rileviamo la risposta di amore di Gesù alla sfida di Tommaso, il quale, assente nella precedente apparizione, alla notizia degli amici:” abbiamo visto il Signore”, non riuscendo a credere, esige, come previa condizione, una prova, una verifica visibile: ”Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodo e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. Quella di Tommaso è la situazione di ogni uomo. Anzi, in ognuno di noi c’è  un Tommaso, spesso in difficoltà a credere, pronto a confondere la fede con l’esigenza di un dato scientifico. Tommaso è il simbolo di tuti noi che, pur ponendoci domande su Dio e sul mistero di Cristo, non abbiamo il coraggio di vivere il rischio della fede. Abbiamo paura di “scommettere” su ciò che “non vediamo”. Ecco perché Gesù a Tommaso e a noi, che cerchiamo ragioni, prove e certezze assolute per credere ed accettare Dio nella nostra vita, rivolge un amorevole rimprovero: ”Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno!”. Allora non la pretesa di segni o di prove concrete dobbiamo domandare a Dio per credere, ma porci nelle Sue mani, abbracciando la croce della sequela, in cammino sì nella notte dei dubbi, ma pellegrini attenti verso la luce, verso la voce di Dio che dice a ciascuno di noi, singolarmente: ”sei e ti stringerò tra le mie braccia”. Ebbene, solo aderendo a Dio, manifestatosi visibilmente e storicamente in Cristo, morto e risorto, il credere diventa visione. Una visione che ci rende “beati” già qui, in questo frattempo che viviamo tra il già ed il non ancora, ove, pur “non avendo visto”, ci affidiamo a Cristo con incondizionata adesione, confessando, come Tommaso, “mio Signore e mio Dio”. E questa è una grande esperienza di incontro con Cristo risorto, che il primo nucleo della Chiesa dell’inizio viveva come un prodigio sempre attuale, ritrovandosi insieme nel “giorno del Signore”. A tale proposito, S. Luca nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, descrive la novità di vita dei primi cristiani, i quali “erano assidui – dice – nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere”. Vivevano davvero una vita da “risorti”, cittadini di un nuovo mondo, vissuto in perfetta comunione e condivisione. E tutti erano contagiati dall’esperienza della risurrezione, non per la concreta visione di Cristo, ma per la testimonianza di vita di coloro che si dicevano discepoli del Risorto. Una mediazione testimoniale che purtroppo oggi manca, essendo un po’ tutti più sedotti dal ruolo di maestri che di testimoni;  più dalla volontà di essere profeti di parole che autentiche voci profetiche, capaci di garantire con la vita di uomini nuovi e diversi, che Cristo è “davvero risuscitato dai morti”. Pertanto, solo quando la nostra fede diventerà contagiosa e saprà comunicarsi, noi saremo motivo di sorpresa e di ammirazione negli altri, i quali, domandandosi il “perché” di questa diversità di comportamento, potranno restare anch’essi presi dall’esperienza della risurrezione, coinvolgendosi nella scoperta di Cristo, quale “Signore e Dio”, fonte di infinita misericordia.

Il Cristianesimo non è una dottrina in disuso (Messa delle 12,00)

vera

Gesù è veramente risorto. Perciò, l’ultima parola della sua vicenda terrena non è la morte, ma la vita. Al di là della Croce non c’è il sepolcro, ma il vivente, Gesù, il Risorto. Quell’uomo che vedono morire sulla croce, è lo stesso uomo che ora si manifesta come Signore della vita. La morte, che pure segna il limite invalicabile contro cui vengono a cadere tensioni e aspettative umane, viene per la prima volta sconfitta; ed in questa vittoria siamo coinvolti tutti. Infatti, noi tutti abbiamo vinto in Cristo la morte; ed il nostro è un destino di eternità: noi siamo eterni, non moriremo mai. Del resto, se non si fosse verificata la Risurrezione, oggi l’ultima parola sarebbe spettata al Calvario; ed ogni speranza sarebbe rimasta priva di fondamento. Il fatto, invece, che tutto sia avvenuto secondo le predizioni, fa di questo evento un punto di riferimento veramente universale e sempre attuale. Perciò,il cristianesimo non è una dottrina in disuso,non è un album di ricordi o di memorie passate, non è la storia di un uomo morto. Il Cristianesimo è una persona viva che continua a proclamare la verità sempre e dovunque. E la verità non è qualcosa che si possiede, ma è Qualcuno che ci possiede: è Gesù, l’umile volto dell’uomo del Venerdì Santo, che è il Risorto della domenica di Pasqua. Lasciarsi possedere da questa Verità è l’unica strada per rendere vera la nostra umanità, per far crescere in essa la luce, la speranza, l’amore; per salvare l’uomo dal degrado, dalla paura del futuro, dalla banalizzazione della vita, dalla chiusura a Dio. Solo amando questo umile volto in cammino sulla via del Golgota, noi riusciamo a capire chi giace sotto il peso dell’ingiustizia, dell’angoscia, della solitudine. Solo fissando il nostro sguardo sul volto sofferente ed agonizzante di Gesù, noi possiamo comprendere la drammaticità di tanti avvenimenti della storia. Solo contemplando il Crocifisso, noi possiamo incontrare il Risorto, che è e sarà sempre il Cristo dell’amore vero, della vita che palpita ovunque, della serenità che conquista; il Cristo della pace che si proclama, della giustizia che si vive, della verità che si impone.

Domenica delle Palme e della Passione

palme

La domenica delle Palme e della Passione del Signore apre la settimana Santa, il tempo “più forte” dell’anno liturgico, perché in essa viene celebrato il mistero centrale della nostra fede: la morte e la risurrezione di Cristo. L’apertura avviene con una scena di trionfo, quale è la benedizione delle palme e la processione in onore di Cristo-Re, che fa il suo ingresso a Gerusalemme tra le grida osannanti della folla. Un trionfo che ben presto si muterà in spietata congiura di morte.

Un aspetto importante del racconto dell’ evangelista Matteo, che vorrei sottolineare, è  la dichiarata innocenza di Gesù, nonostante i tanti tentativi per dichiararlo ” reo di morte “.  Tale innocenza si rileva da tutto il racconto, ed appare chiara sia dal sogno della moglie di Pilato che lo esorta a “non avere a che fare con quel giusto “, sia dal gesto dello stesso Pilato, che ” si lava le mani davanti alla folla “, dicendo: ” non sono responsabile di questo sangue…”.

Nell’innocenza di Gesù emerge però  la colpevolezza degli uomini, per cui il processo a Gesù  e’ anche il processo agli uomini. Così, mentre Pilato proclama che Gesù è  innocente, poi lo condanna a morte. I Farisei e i sacerdoti del Tempio,  che pur gridano il rispetto della Legge, poi la violano nella procedura e nel contenuto, condannando l’inviato di Dio, Cristo, incapaci di vedere in Lui la rivelazione del suo mistero. Persino la folla, che prima l’aveva  accolto come re, adesso gli gira le spalle, chiedendo di crocifiggerlo.

Leggi tutto… »

V DOMENICA DI QUARESIMA

res

La quaresima non è un tempo a sé stante, chiuso in se stesso. Sin dall’inizio sia pure attraverso esperienze di sofferenza e di mortificazione, rivela la sua tensione verso il traguardo della risurrezione pasquale. In queste ultime due domeniche abbiamo vissuto una progressiva rivelazione di Gesù. Abbiamo insieme meditato il suo mistero, che, nell’incontro con la Samaritana, si manifesta come “acqua” che disseta il nostro bisogno di infinito; nell’episodio della guarigione del cieco nato, come “luce” che rischiara le nostre tenebre; infine, nella liturgia della parola di questa v^ domenica, si presenta come Colui che possiede la “vita” e dona la “vita”. Ma prima di affrontare il racconto della risurrezione di Lazzaro, che rappresenta uno dei capitoli più toccanti del Vangelo di San Giovanni sia per lo spessore teologico che per la carica di umanità di Gesù, è opportuno considerare la prima lettura tratta dal libro di Ezechiele, nella quale il profeta annunzia per gli Ebrei deportati in esilio a Babilonia, il ritorno il patria attraverso l’immagine delle ossa aride, le quali acquistano la vita per l’azione dello Spirito: “Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe……Farò entrare in voi il mio Spirito e vivrete”. Naturalmente ci troviamo davanti all’annuncio della restaurazione collettiva di Israele, presentata da Ezechiele con una forte visione, quella delle tombe che si aprono, che certamente fa intravedere anche una risurrezione di Cristo, di cui questa di Lazzaro, oggi, è un segno di anticipazione.

Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, troviamo, in un certo qual modo, realizzato quanto profetato da Ezechiele. In essa San Paolo ci esorta a vivere non secondo la carne, ma secondo lo Spirito; lo Spirito di Dio che già abita in noi, a motivo del battesimo e della fede in Cristo, e che è la garanzia della nostra futura risurrezione. A questo punto, approdiamo al celebre episodio della risurrezione di Lazzaro, di cui, data l’ampia narrazione, mettiamo in luce soltanto alcuni aspetti fondamentali importanti.

Primo, la risposta di Gesù alla notizia di Lazzaro ammalato :”questa malattia – dice – non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Una affermazione che non vuole significare disinteresse di Gesù per l’amico o dire che Lazzaro non morirà, ma soltanto far comprendere ai suoi discepoli che la morte non va drammatizzata; anzi, spesso anche le realtà che, a primo impatto, sembrano negative, possono diventare occasioni per glorificare Dio. E Lazzaro che muore e risorge manifesta sì la potenza di Dio, ma è anche preludio a ciò che accadrà, tra non molto, allo stesso Gesù: così la risurrezione di Lazzaro diventa profezia della risurrezione di Cristo.

Leggi tutto… »

QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA

cieco

Il centro  della liturgia della Parola di questa quarta domenica di quaresima è rappresentato dal tema della luce e delle tenebre. E precisamente del contrasto tra queste due realtà, già sottolineato da San Giovanni nel IV° Vangelo, quando dice:” La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta”. Un contrasto però che non riguarda soltanto l’inizio della vita cristiana, passaggio dal buio alla luce della fede mediante il battesimo,  ma coinvolge ogni attimo della nostra esistenza, sospesa spesso a comportamenti e pensieri, giocati tra luce e tenebre, senza alcuna serietà di autentica ed evangelica testimonianza. Per noi cristiani non basta la consapevolezza di essere non più “tenebra”, una volta ricevuto il battesimo, è necessario che ci comportiamo anche come figli della luce, impegnati a fugare le opere delle tenebre. Non è sufficiente essere semplici testimoni della luce, ma dobbiamo diventare “voce profetica” all’interno delle nostre comunità, denunciando ogni sorta di ingiustizia e di violenza, condannando ogni maschera di legalità, respingendo ogni accattivante schema politico, che sia portatore di tenebre sociali. Non possiamo sottrarci a questo impegno, se vogliamo restare fedeli al nostro Battesimo, che è essenzialmente una chiamata alla luce; una  esperienza di risurrezione, vero passaggio dalla morte alla vita, che dobbiamo testimoniare lungo tutta la nostra storia, come Gesù, il quale una volta “risuscitato dai morti, non muore più”.

Ma cerchiamo di entrare nell’episodio della guarigione del cieco nato, che oltre a figurare un anticipo del passaggio di Cristo dalla sua morte alla luce della risurrezione, è anche la storia di una conversione, di un’illuminazione spirituale. Ebbene, fermo restando la realtà del miracolo come passaggio dalla cecità fisica alla vista, vediamo in questo uomo infermo un vero cammino di fede, che è esemplare per il nostro itinerario di credenti. Al di là dell’impasto di fango e saliva che Gesù applica sugli occhi spenti del cieco, ciò che colpisce e fa esaltante la sua figura, è l’obbedienza alla parola di Gesù:” Va a lavarti nella piscina di Siloe”…quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva”. Ed è proprio la sua fede che rende prodigiosa l’acqua. La fede, quella vera, è resa, abbandono; è un affidarsi incondizionatamente alla parola di Dio. Il cieco accetta l’incredibile. Superando ogni logica umana, si lascia conquistare da Cristo: ci vede perché ha creduto. Conquistato, vince tutte le difficoltà, persino le ostilità dei suoi genitori, che, di fronte alle minacce dei giudei, declinano ogni responsabilità, imputando al figlio cieco quanto accaduto: ”Chiedetelo a lui – rispondono – ha l’età, parlerà lui di se stesso”. E qui tra il cieco e le autorità giudaiche inizia un dialogo quasi drammatico, i cui contorni non riguardano tanto il fatto in sé del miracolo, quanto la stessa identità di Gesù.  Ai giudei non interessa l’accettazione o meno di quanto avvenuto. In gioco c’è qualcosa di più importante: smascherare Cristo come falso profeta. In altre parole, lo scontro non è sull’autenticità del miracolo, ma intorno alla persona di Cristo. E mentre i Giudei si irrigidiscono nella loro incredulità, rifiutandosi di credere nella messianicità divina di Gesù, il cieco senza seguire i ragionamenti di questi pretesi sapienti, alla domanda: ”tu che dici di Lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?”, risponde: ”è un profeta”. Una risposta che gli costa l’espulsione dalla sinagoga. A questo punto il cammino di fede del cieco approda all’ultimo traguardo: in quell’uomo che si chiama Gesù, egli vede il Signore della gloria. Una percezione profonda che aggrava ancora di più la cecità dei giudei, i quali non riuscendo a vedere la presenza di Dio in Cristo, lo respingono addirittura come un “peccatore”.

Purtroppo, essi non vedono, perché non vogliono; tanto sono chiusi nelle gabbie dei loro privilegi che volutamente rifiutano ogni segno di divinità nella persona e nell’operato di Gesù. Pertanto, la loro è una cecità colpevole. Tanto è vero che, a conclusione dell’episodio, troviamo una severa sentenza di giudizio: ”Io sono venuto in questo mondo – dice Gesù – per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi”. Sembra una conclusione paradossale, ma è così. Perché davanti alla luce o apriamo gli occhi per vedere ed immergerci in essa, oppure li chiudiamo e restiamo nelle tenebre.  Nella discussione tra i farisei ed il cieco guarito, notiamo che Gesù si pone come luce per i non vedenti; però può provocare anche accecamento per i presunti vedenti. Chi riconosce la sua cecità ed accetta di farsi illuminare da Cristo, diventa “figlio della luce”; e le sue saranno opere di bontà, di giustizia e verità. Viceversa, chi si illude di vedere, rischia di diventare cieco; e, le sue saranno opere di egoismo, ingiustizia e falsità. E questo è un rischio che incombe un po’ su tutti noi cristiani. Spesso crediamo di vedere, ma il nostro è un vedere senza cuore, ci illudiamo di essere i depositari di Cristo, però siamo incapaci di testimoniarlo nelle cose che contano; pensiamo di essere a posto con Dio e con gli uomini; invece, nella realtà siamo lontano da Dio e dagli stessi uomini. Le squame dell’ipocrisia ancora non cadono dai nostri occhi; ancora non prendiamo atto dei nostri limiti e delle nostre povertà. In questo tempo di quaresima siamo invitati ad uscire dal sonno della cecità, per aprire gli occhi alla luce del Vangelo. Siamo chiamati ad essere trasparenti, luminosi, perché – come leggiamo nella I^ lettura, tratta dal I° libro di Samuele – il Signore non guarda l’apparenza, ma il cuore. Più il cuore è nella luce, più vediamo e leggiamo le cose, gli uomini e gli avvenimenti con gli occhi di Dio, e, quindi, con gli occhi della fede.

Leggi tutto… »

Terza Domenica Di Quaresima

samaritana

 La liturgia della Parola di questa terza domenica di quaresima è dominata dal tema dell’acqua: elemento naturale, di cui Gesù, in dialogo con la samaritana, si serve, per tracciare un cammino di redenzione del Suo mistero, dono di salvezza per tutta l’umanità. Attraverso questo simbolo, con una progressiva gradualità, esprime che Egli è e quale è la Sua missione. Ma prima di entrare nella descrizione dell’incontro di Gesù con la donna di Samaria, che è una delle pagine più belle del IV° Vangelo, è opportuno sottolineare che anche le altre due letture gravitano intorno a tale simbolismo.

      Nella prima, tratta dal libro dell’Esodo, ci troviamo davanti al miracolo dell’acqua abbondante, scaturita dalla roccia. Qui, ancora una volta Dio non dimentica il suo popolo, uscito dalla schiavitù d’Egitto ed ora pellegrino nel deserto, ove soffre per la mancanza d’acqua. Di fronte alla sua ribellione e, persino, al desiderio di ritornare ad essere schiavo del Faraone piuttosto che libero in un deserto inospitale, Dio accoglie la preghiera di Mosè, rispondendo con un dono inatteso: l’acqua della roccia in pieno deserto. San Paolo con un’esegesi abbastanza ardita, di carattere chiaramente allegorico, nella prima lettera ai Corinzi,  vede in questa acqua sgorgante dalla roccia Cristo, roccia viva e sorgente di acqua zampillante per la vita eterna. E all’acqua allude anche la II^ lettura, presa dalla lettera ai Romani, dove l’amore di Dio, fondamento della nostra speranza, viene riversato in abbondanza nei cuori come acqua che feconda la terra. A questo punto entriamo nella meravigliosa ricchezza del brano evangelico, dove, guidati dal simbolo dell’acqua, approdiamo ad orizzonti fortemente teologici, in cui Cristo e Dio stesso diventano sorgente di vita eterna. Anzi, in tale episodio vediamo che non è l’uomo assetato che va alla ricerca di Dio, ma è Dio stesso che ha sete dell’uomo e chiede di essere da lui accolto, come Gesù fa con la samaritana.

Ebbene, la scena descritta dall’Evangelista Giovanni si apre attorno ad un pozzo, dove Gesù, stanco del viaggio, siede. Prendendo l’iniziativa, chiede da bere ad una donna samaritana, giunta lì, con una brocca, per attingere acqua. La richiesta è motivo di sorpresa: ”Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”. Di fronte allo stupore della donna, assistiamo ad un rovesciamento di situazioni: non è più in gioco la materialità dell’acqua, di cui Gesù aveva avuto bisogno per soddisfare la sete, ma qualcosa di più misterioso: ”Se tu conoscessi il dono di Dio – le dice Gesù – e chi è colui che ti dice: dammi da bere, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva”…E “ chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno”.

Leggi tutto… »

Seconda Domenica di Quaresima

 

  trasf La seconda domenica di Quaresima, ogni anno, è segnata dalla trasfigurazione: una scena di gloria e di luce messianica, posta all’inizio del tempo quaresimale, tempo austero e meditativo, quasi a volerci dire che lo sbocco finale dell’esistenza di Cristo non è la morte, ma la gloria della risurrezione. Tale evento si verifica, secondo la tradizione cristiana,  sul monte Tabor. Qui Gesù si rivela come Figlio di Dio, in un contesto di mistero e di trascendenza: il suo volto diventa luminoso come il sole e le sue vesti candide come la luce. A differenza di Marco e Luca, l’evangelista Matteo sottolinea che Gesù trasfigurato è il nuovo Mosè, che incontra Dio in un nuovo Sinai, il Tabor. Però con questa differenza, che rende bene la novità di Gesù e la sua superiorità rispetto a Mosè: sul Sinai, Mosè riceve la Legge, fondamento dell’Antico Testamento; sul Tabor, Gesù, nuovo Mosè, è presentato come Figlio prediletto del Padre:”ed ecco una voce che diceva:”Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo”. Al di là della rivelazione del mistero trinitario di Dio, che troviamo nella scena della trasfigurazione, importante è la raccomandazione che il Padre rivolge ai discepoli di Gesù:” Ascoltatelo”. Ascoltare non per allargare semplicemente il campo delle conoscenze, ma per prendere coscienza della propria sequela. Non per chiudersi definitivamente nella tenda della contemplazione nel disincanto del vissuto quotidiano, ma per ridiscendere nella pianura della vita, dove difficoltà, desideri, progetti, speranze e delusioni si rincorrono in una qualificata e qualificante tensione di maturazione umana e cristiana. Ascoltare per rivivere e ripresentare nella vita il mistero di Cristo: mistero di umiliazione e di gloria, di sofferenza fino alla morte e di risurrezione. L’ascolto vero si traduce sempre nella capacità di accettare Cristo, seguendo la sua Persona sino alla fine. E’ un innamoramento che cambia cuore e mente, fino a renderLo unico punto di riferimento della vita. Ma la scena della trasfigurazione non si ferma all’estasi dei discepoli, che l’apostolo Pietro con spontaneità vorrebbe prolungare per sempre:”Signore – dice – è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per Te, una per Mosè ed una per Elia”. Essa si arricchisce di ulteriori connotazioni che ci permettono di leggere una anticipazione del mistero pasquale. E che la trasfigurazione ci proietta già nella prospettiva della Croce, e, quindi, verso la passione si ricava anche dalle parole che Gesù rivolge a Pietro, Giacomo e Giovanni, “mentre discendevano dal Monte”:”non parlate a nessuno di questa visione –raccomanda – finchè il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti”.

A tale proposito, non bisogna dimenticare che l’episodio della trasfigurazione è collocato tra due annunci espliciti della passione, quasi a voler significare che al di là della passione esiste per Gesù un futuro di gloria; lo stesso futuro che offre ai discepoli, quando dice loro:” se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”.

Ci troviamo così al cospetto di un messaggio forte di fede pasquale, mediante il quale, ai discepoli di ieri e di oggi, Gesù indica che solo “attraverso la passione possono giungere al trionfo della risurrezione”. Ma in tutte e tre le letture bibliche troviamo un filo conduttore molto chiaro, quello della vocazione e la sofferenza che ogni sequela porta con sé. Infatti, nella prima lettura, tratta dal libro della Genesi, è descritta la vocazione di Abramo, primo credente in Dio:”vattene dal tuo paese – gli dice il Signore – dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò”. Quello di Abramo è un esempio riuscito di risposta generosa alla chiamata di Dio. Egli ascolta la Sua parola, lascia tutto, mettendosi in cammino verso l’ignoto alla ricerca della terra promessa. La sua grandezza non sta solo nella capacità di sradicamento e di distacco dal proprio vissuto con cose e persone, ma soprattutto nell’accettazione di un nuovo progetto di vita ideato dalla stessa sapienza di Dio:”Abramo partì, come gli aveva ordinato il Signore”. Egli rischia sulla parola di Dio. Crede alla voce misteriosa che gli promette molto di più di quello che gli chiede; intraprende un cammino incerto; ha coraggio. Convinto, corre il rischio della fede. Del resto, la fede è un continuo rischiare noi stessi, la nostra vita, affidandoci al Signore. Proprio in forza di tale fede, Abramo diventa padre di tutti i credenti. E proprio questo rischiare la vita sulla parola di Dio costituisce la vera ricchezza della Chiesa: ”carissimo – dice San Paolo nella seconda lettura presa dalla lettera a Timoteo – soffri anche tu insieme a me per il Vangelo”. La perseveranza nel bene, affrontando difficoltà e sofferenza per il Vangelo, è la risposta più autentica alla chiamata di Dio. Risposta che sarà tanto riconoscente quanto salda è la fede in Lui. Nella liturgia della parola odierna è soffuso un messaggio di speranza incrollabile: la trasfigurazione non è un sogno impossibile, ma realizzabile per ogni cristiano, chiamato alla fede. Infatti, noi cristiani siamo destinatari di una vocazione speciale: la vocazione alla santità. Una santità che conquistiamo non costruendo la nostra tenda sul monte della contemplazione, ma come Gesù, stando in mezzo agli altri; vivendo come Lui la difficile via della Croce, strada obbligata e senza alternativa per la meta finale: la nostra risurrezione.

Leggi tutto… »

Prima Domenica Quaresima

tentazione

 La Quaresima è un “tempo forte” dell’anno liturgico. Forte, perché è grande il mistero che celebriamo, tutto teso verso la Pasqua, che è la festa primordiale. E’ il tempo in cui si svela pienamente  in noi il mistero pasquale di Cristo. Forte, perché è tempo di meditazione e di riflessione; di conversione e di adesione piena al Vangelo. E’ una nuova occasione per ridisegnare il nostro rapporto con Dio, per credere in Lui che ci ha amati per primo; per prendere coscienza che Dio, attraverso la Croce del Figlio, viene a noi in un slancio di amore infinito. Naturalmente tutto ciò richiede un ascolto più intenso della Parola di Dio; un lavorio interiore efficace per rendere trasparente il nostro cuore alla Sua accoglienza. E’ un cammino lungo, ma necessario per arrivare alla vita nuova in Cristo. Tale itinerario è contrassegnato dal simbolismo del numero quaranta, che nella tradizione biblica indica sempre un periodo di  particolare impegno e di profonda tensione prima di incontrare Dio. Pensiamo ai quaranta giorni di Mosè sul monte Sinai; ai quaranta anni di peregrinazione di Israele nel deserto oppure ai quaranta giorni di Elia in cammino verso l’Oreb. Dio non Lo incontriamo nel chiasso o nel frastuono; non si rivela alla vita frenetica e dispersiva in cerca del superfluo. E’ il silenzio, il deserto il luogo privilegiato dell’incontro con Dio. E se non facciamo il silenzio attorno a noi e dentro di noi; se non facciamo il deserto, in noi mai brillerà la luce della Sua presenza. Il cammino quaresimale che la Chiesa ci propone, vuole essere una lenta peregrinazione interiore per incontrare Cristo, nostra Pasqua.

   Ebbene, in questa prima domenica di quaresima, la liturgia della Parola, attraverso scelte letture bibliche, ci dice che la salvezza non fallirà, perché è opera di Dio. Nello stesso tempo, ci avvisa che, sino alla fine della storia, la lotta tra il bene ed il male non registrerà alcuna tregua. E’ una lotta dura che inizia con i nostri progenitori, i quali,  sognando di “diventare come Dio”, compiono un gesto di ribellione e di autosufficienza nel Suoi confronti. Tentati, mangiano il frutto proibito, cadendo nella trappola del peccato, che li porta ad una diversa impostazione della vita. Infatti, subito “si accorgono di essere nudi”. Nasce così nel loro cuore la malizia, la prima avvisaglia del disordine che il peccato porta con sé. Poi, invece di continuare a specchiarsi nella verità e nella bellezza che Dio ha impresso in loro, si nascondono, temendo il Suo sguardo. Infine, spezzando ogni legame di dialogo e di vicinanza con Dio, diventano artefici di dominio e di sopraffazione, tanto da sgretolare la stessa immagine e somiglianza. E’ la grande tentazione che, non vinta dai nostri progenitori, determina il male e la sofferenza del mondo. Ma se per la disobbedienza di Adamo il peccato e la morte entrano nel mondo, per merito di un altro uomo, Gesù, il nostro Adamo, la salvezza è venuta a noi. Pertanto, l’annuncio fondamentale della liturgia della Parola odierna non è tanto “noi siamo peccatori”, quanto “Cristo è nostro Salvatore”. Anzi, tra questi due estremi, peccato e redenzione, si distende lo scenario della nostra storia, dove ci giochiamo la carta della nostra grandezza o della nostra miseria.

Lo sfondo delle due letture, quella della Genesi e di San Paolo ai Romani, ci permette di comprendere il racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto. Tre tentazioni, aspetti di un unico cammino di prova, nel quale vediamo condensata l’esperienza di tutta la vita di Cristo, il quale, fin sopra la Croce viene tentato di seguire la via del messianismo facile: ”ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. E’ il re di Israele, scenda ora dalla Croce e gli crederemo”. Gesù non cede, non si compromette con le facili richieste spettacolari; il Suo non è un progetto di potenza o di dominio, ma di amore e di donazione. Così alla triplice tentazione dell’avere, del successo e del potere, risponde con tre citazioni tratte dal libro del Deuteronomio: ”Sta scritto: non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”; “sta scritto anche: non tentare il Signore Dio tuo”; infine, ”sta scritto: adora il Signore Dio tuo e a Lui solo rendi culto”.  Con questi riferimenti biblici, Gesù non solo dimostra che la sovranità di Dio è la fonte delle Sue scelte, ma rivela anche che l’unico cibo che lo sostiene nell’essere e nell’operare è l’obbedienza alla volontà del Padre, a differenza di Adamo che si ribella al Suo Creatore.

Leggi tutto… »

Quaresima: tempo speciale di grazia

quaresima

La Pasqua è la celebrazione cardine, il cuore di tutto l’Anno Liturgico. Ben presto i cristiani hanno sentito l’esigenza di preparare e prepararsi per questa celebrazione così importante. All’inizio il periodo di preparazione consisteva nei due giorni immediatamente precedenti alla celebrazione pasquale, dedicati alla preghiera, al digiuno e alla riflessione; successivamente questa preparazione venne estesa ad una intera settimana, fino ad arrivare, nel IV secolo, ad abbracciare quaranta giorni (noi conosciamo la simbolicità di questo numero: il diluvio durò 40 giorni;  Elia ha camminato 40 giorni e 40 notti prima di arrivare all’Oreb, su cui incontra Dio; Mosè è stato 40 giorni e 40 notti sul Sinai; i 40 giorni di Gesù nel deserto). La Quaresima è un tempo speciale di grazia che Dio ci dona; è un’occasione da cogliere al volo perché possa iniziare un serio cammino di conversione, perché possiamo deciderci a ri-centrare e ri-fondare la nostra vita sulla roccia che è la Parola di Dio; la Quaresima è il tempo opportuno per ritornare a quella opzione fondamentale verso il bene da cui molte volte ci siamo allontanati. Il tempo quaresimale è l’occasione per vivere in maniera più intensa e profonda la nostra relazione con Dio (tempo di preghiera); è tempo per imparare a dimenticare noi stessi per l’altro, per abbandonare tutto ciò che pesa e ritornare al cuore, all’essenziale: Dio, la sua Parola, i valori (tempo di spoliazione, digiuno, sobrietà). In questa prospettiva teologica va compreso il digiuno quaresimale, che non è fine a se stesso, ma è porta che ci apre a Dio e al prossimo (tempo di carità e condivisione). Un ulteriore aspetto della Quaresima che va messo in luce è quello della comunitarietà. L’itinerario quaresimale non è il cammino di un individuo isolato, ma è viva esperienza ecclesiale e comunitaria. Nella Chiesa antica c’era la prassi della penitenza pubblica e l’ordo dei penitenti costituiva una piccola comunità; alla fine della Quaresima questi penitenti pubblici venivano riammessi nella comunità tutta. La Quaresima deve essere anche l’occasione per sentirci parte di un unico corpo, che è il corpo ecclesiale, che è la Chiesa e vivere la Quaresima non solo come singoli (io e il mio fioretto, io e le mie devozioni), ma come comunità è davvero una sfida. La Quaresima, segno sacramentale della nostra conversione, sia per tutti una palestra per crescere nella conoscenza di Dio (preghiera, meditazione, via crucis, parola di Dio) e nella testimonianza di vita (carità, santità, cammino di conversione).

A cura di don Agostino Porreca